Nuovo resoconto dalla delegazione del Servizio Civile Internazionale e
del Forum italiano dell'acqua, accompagnata anche da DINAMOpress, in
viaggio per i territori occupati.
Sono quasi cinque mesi che non piove in West Bank. Ma non è per
questo che nelle case e nei villaggi palestinesi non c'è acqua. Il
problema è l'apartheid che trasforma l'accesso all'acqua da un diritto
umano inalienabile in uno strumento di oppressione e ricatto.
Per questo motivo sono diverse le realtà palestinesi che si occupano
proprio di acqua: associazioni ambientaliste, ong, centri di studio. Un
patrimonio di saperi, ricerche e pratiche che stiamo incontrando in
questi giorni per rendere stabili e proficue le relazioni tra i
movimenti per i beni comuni in Italia, a partire dalla contestazione
dell'accordo tra Mekorot (l'azienda israeliana che si occupa delle
risorse idriche) e la ex-municipalizzata dell'acqua romana Acea.
Negli uffici del Pengon (Palestinian Environmental NGOs Network) a
Ramallah, un coordinamento di 17 organizzazioni che si occupa di
ricerche sulle questioni ambientali e tra gli animatori della campagna
contro le politiche di Mekorot, al servizio dei programmi di occupazione
e che fa profitti rivendendo a condizioni svantaggiate l'acqua alla
popolazione palestinese. Addirittura in alcune zone le famiglie
palestinesi devono pagare preventivamente, tramite delle carte
prepagate, l'acqua che consumeranno. Israele controlla l'83% dell'acqua
nei territori occupati, garantendosi il controllo delle principali falde
acquifere, dirottandola chiaramente verso le colonie israeliane
garantendo il loro sviluppo prima di tutto agricolo. Il regime di
occupazione fa il resto: divieto di scavare i pozzi oltre una certa
profondità e allacciarsi alla rete idrica per molti villaggi. Se
Ramallah dipende per il 70% da Mekorot, il 40% delle comunità nel South
Hebron Hills non hanno invece accesso all'acqua, il 70% delle comunità
non ha impianti di depurazione per l'acqua raccolta o per quella
proveniente dai pozzi.
Se l'Organizzazione mondiale della sanità prevede 100 litri al giorno
procapite, nei territori spesso si arriva a mala pena a 10 litri. Una
violazione di almeno una decina di convenzioni internazionali per i
diritti umani per cui Israele, ça va sans dire, non subisce
nessuna sanzione. Ancora peggiore la condizione a Gaza, dove il 90%
dell'acqua non è potabile e i programmi di desalinizzazione dal mare, a causa di difficoltà tecniche,
rischiano di essere controproducenti. Al
pari della rete elettrica durante i 51 giorni di bombardamenti di
Margine Protettivo, nel mirino dell'esercito israeliano sono finite
anche le infrastrutture idriche, contribuendo al collasso umanitario
nella Striscia. Minare la possibilità stessa della presenza palestinese
in ampie zone dei territori occupati, per costringere la popolazione in
enclave potenzialmente sigillabili, è l'obiettivo della governance
israeliana: altrimenti come giustificare la distruzione di 173 strutture
per la raccolta dell'acqua, molte delle quali secolari, realizzata solo
tra il 2009 e il 2011?
A Betlemme ha sede Arij (Applied Research Institute – Jerusalem),
centro studi che oltre a produrre analisi e ricerche, prova a mettere in
pratica e sperimentare soluzioni concrete per la vita nei territori e
la tutela dell'ambiente. Dall'incontro con i ricercatori ci è stato
chiaro come l'occupazione e gli insediamenti stiano radicalmente
modificando, forse in maniera irreversibile, la morfologia e gli
equilibri naturali del territorio, a cominciare dalle risorse idriche.
La deviazione e lo sfruttamento del fiume Giordano (unica fonte d'acqua di
superficie) ha portato al prosciugarsi del lago di Hula, stessa sorte a
cui sembra destinato il lago Tiberiade. Nel frattempo, con il
finanziamento della Banca Mondiale, Israele, in concerto con la
Giordania e la stessa Autorità palestinese ha in programma il faraonico
progetto di riversare l'acqua del Mar Rosso nel Mar Morto, così da
garantire il drenaggio dell'acqua e al contempo garantire il turismo.
Prosciugare i fiumi per far fiorire il deserto, nuove terre fertili per
gli insediamenti al costo della distruzione di un ecosistema e della
trasformazione radicale della geografia umana e naturale di un'intera
regione.
Jeb Al Theeb è un piccolo villaggio ad una mezz'ora di macchina da
Betlemme. Qui il tempo non si è fermato, è tornato indietro a causa
dell'occupazione. Ad accoglierci un gruppo di donne che racconta cosa
vuol dire vivere qui. Mentre arriviamo abbiamo visto i pali della luce
abbattuti: gli abitanti avevano provato nottetempo a tirare su la rete
elettrica, ma l'esercito non era dello stesso avviso “non avevamo il
permesso e questa è Area C, qui ogni cosa deve essere autorizzata, per loro le nostre stesse case sono abusive”. Così il villaggio ha solo un
paio d'ore al giorno di elettricità garantite da un piccolo generatore, con le ovvie
conseguenze sulla vita materiale e la possibilità di sviluppo economico.
A Jeb Al Theeb poi l'acqua non arriva proprio: il rubinetto di Mekorot è
nelle mani dei coloni. Mentre qui l'acqua non c'è a poche centinaia di
metri una lussureggiante e fertile fattoria, nella colonia di Sde Bar.
In mezzo gli olivi dei palestinesi (nella foto), dove però non possono
arrivare. A circondare Jeb Al Theeb Nokdim, la colonia casa del
ministro degli Esteri e leader del partito di destra Israel Beytenu,
Avigdor Lieberman, poi Tekoa e Kfar Eldad. Sopra Jeb Al Theeb svetta
Herodion una dei più importanti siti archeologici della Palestina,
sfruttata esclusivamente da Israele e off limits per i palestinesi, ad
aspettarli un check point e una piccola base militare.
Leggi anche: Water4Palestine: al via il viaggio della delegazione italiana e #Water4Palestine, la fame di terra e la sete dell'assedio
Per seguire la delegazione sul web:
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http://bdsitalia.org/no-mekorot
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